How to Escape from the Cave
azione performativa teatrale 3D, 2023
Produced and Directed by artQ13 - Avatāra Theatre Company
artQ13 - sympatric areas for artistic research
azione performativa teatrale 3D, 2023
Produced and Directed by artQ13 - Avatāra Theatre Company
artQ13 - sympatric areas for artistic research
Nel corso del Novecento, l’individuo muta, si trasforma. Immerso in un nuovo quotidiano roboante e tentacolare, diviene un ingranaggio necessario, un lavoratore, la cui figura pubblica coincide innanzitutto con la sua professione. Pian piano, anche il suo tempo libero, quello privato e sacro, viene invaso, compromesso, e in qualche modo manipolato. Come suggerisce Guy Debord nel suo classico del ‘67 La società dello spettacolo, il lavoratore si trasforma a tutti gli effetti in un consumatore, continuamente bersagliato dallo sfarfallio spettacolare della pubblicità e della televisione, che riorganizza i suoi valori e le sue necessità. E allora, il ruolo di un individuo non è solo commisurato alla professione e al suo agire sociale, ma anche alla modalità con cui dispone dei prodotti che lo circondano.
Ma il mondo continua a cambiare, sempre più in fretta, ed ecco che, in un lampo, lavorare e consumare non bastano più. La metamorfosi inarrestabile si concretizza in un nuovo stadio: non più persone, ma progetti.
Con La società della performance, i filosofi e scrittori Colamedici e Gancitano intessono un dialogo con la proposta di Debord, individuando nel nostro mondo il progressivo abbandono della realtà spettacolare in virtù di una dimensione performativa.
A differenza della rappresentazione convenzionale, in cui vi è una netta separazione tra l’attore, che si fa carico per l’occasione del contenuto spettacolare, e il pubblico, che lo fruisce, in quella performativa il contenuto veicolato dal performer coincide totalmente con la sua persona pubblica, con il suo corpo e il suo vissuto.
Nella società tecnologicamente avanzata della performance, in cui quasi tutti hanno un profilo social, ogni individuo diviene un brand, un vero e proprio «marchio» di cui è egli stesso creatore e promotore, a sua volta osservato dagli altri brand. «Se non sei online e non condividi ogni aspetto della tua esistenza […] non esisti […]. Non è più l’avatar a dover somigliare alla persona, ma la persona a dover essere all’altezza del proprio avatar».[1]
La separazione tra platea e palco, tra chi propone e chi osserva, è solo un ricordo: oggi il mondo è popolato da performer che raccontano di sé, che fanno di tutto per essere continuamente visibili. Professione e tempo libero si mischiano sempre più in un’unica dimensione, in cui ogni aspetto dell’esistenza può essere condiviso, pubblicizzato e, infine, monetizzato. E la persona, la sua essenza e la sua dignità, corrispondono appieno alla qualità della sua performance.
Ma in un mondo in cui è tutto visibile e monetizzabile, dove finisce l’invisibile, ciò che è sotterraneo, che necessita di domande e immersioni? Esiste ancora uno spazio privato, una dimensione della contemplazione?
Nel mito della caverna di Platone, i prigionieri sono costretti a concepire la realtà accontentandosi delle ombre degli oggetti reali. Per scoprire cosa sia per davvero la realtà, qualcuno deve liberarsi, andare incontro all’angoscia che la scoperta degli oggetti concreti può portare, per poi fare ritorno nella caverna con la consapevolezza che, gli altri prigionieri, potranno non credere alle sue verità. Ma almeno, qualcheduno, dalla caverna ci è uscito.
Se però l’individuo diviene allo stesso tempo creatore di realtà e spettatore, immerso in un mondo di individui esattamente come lui, chi è in grado di uscire dall’antro per illuminare i suoi simili? E se ciò che sta fuori non esiste in quanto non visibile, bisognerà forse accontentarsi delle ombre?
In Fuggire dalla caverna, realizzato con la computer grafica 3D, i protagonisti sono proprio loro, gli avatar, gettati dentro la rappresentazione virtuale di uno spazio espositivo reale completamente vuoto (c’è ancora bisogno di osservare delle opere in un mondo di performer?). Questi si muovono, eseguono gesti per comunicare, per farsi vedere. Una voce narrante fa da controcanto, ma è una voce sfasata, incomprensibile, e dice cose che, probabilmente, non ha nemmeno più senso ascoltare.
In questo spazio, però, nulla viene davvero comunicato, non c’è nulla da esibire. Ogni tentativo di «riempire» questo vuoto condurrebbe, potenzialmente, a un risultato commerciale. Ma non è questo il caso. Qui ci sono soltanto gli avatar, presi per quello che sono.
Sono gli avatar dell’inutile, del non monetizzabile. Di ciò che sta nell’ombra.
[1] A. Colamedici, M, Gancitano, La società dello spettacolo, p. 22, Edizioni Tlon, Roma 2022.
Ma il mondo continua a cambiare, sempre più in fretta, ed ecco che, in un lampo, lavorare e consumare non bastano più. La metamorfosi inarrestabile si concretizza in un nuovo stadio: non più persone, ma progetti.
Con La società della performance, i filosofi e scrittori Colamedici e Gancitano intessono un dialogo con la proposta di Debord, individuando nel nostro mondo il progressivo abbandono della realtà spettacolare in virtù di una dimensione performativa.
A differenza della rappresentazione convenzionale, in cui vi è una netta separazione tra l’attore, che si fa carico per l’occasione del contenuto spettacolare, e il pubblico, che lo fruisce, in quella performativa il contenuto veicolato dal performer coincide totalmente con la sua persona pubblica, con il suo corpo e il suo vissuto.
Nella società tecnologicamente avanzata della performance, in cui quasi tutti hanno un profilo social, ogni individuo diviene un brand, un vero e proprio «marchio» di cui è egli stesso creatore e promotore, a sua volta osservato dagli altri brand. «Se non sei online e non condividi ogni aspetto della tua esistenza […] non esisti […]. Non è più l’avatar a dover somigliare alla persona, ma la persona a dover essere all’altezza del proprio avatar».[1]
La separazione tra platea e palco, tra chi propone e chi osserva, è solo un ricordo: oggi il mondo è popolato da performer che raccontano di sé, che fanno di tutto per essere continuamente visibili. Professione e tempo libero si mischiano sempre più in un’unica dimensione, in cui ogni aspetto dell’esistenza può essere condiviso, pubblicizzato e, infine, monetizzato. E la persona, la sua essenza e la sua dignità, corrispondono appieno alla qualità della sua performance.
Ma in un mondo in cui è tutto visibile e monetizzabile, dove finisce l’invisibile, ciò che è sotterraneo, che necessita di domande e immersioni? Esiste ancora uno spazio privato, una dimensione della contemplazione?
Nel mito della caverna di Platone, i prigionieri sono costretti a concepire la realtà accontentandosi delle ombre degli oggetti reali. Per scoprire cosa sia per davvero la realtà, qualcuno deve liberarsi, andare incontro all’angoscia che la scoperta degli oggetti concreti può portare, per poi fare ritorno nella caverna con la consapevolezza che, gli altri prigionieri, potranno non credere alle sue verità. Ma almeno, qualcheduno, dalla caverna ci è uscito.
Se però l’individuo diviene allo stesso tempo creatore di realtà e spettatore, immerso in un mondo di individui esattamente come lui, chi è in grado di uscire dall’antro per illuminare i suoi simili? E se ciò che sta fuori non esiste in quanto non visibile, bisognerà forse accontentarsi delle ombre?
In Fuggire dalla caverna, realizzato con la computer grafica 3D, i protagonisti sono proprio loro, gli avatar, gettati dentro la rappresentazione virtuale di uno spazio espositivo reale completamente vuoto (c’è ancora bisogno di osservare delle opere in un mondo di performer?). Questi si muovono, eseguono gesti per comunicare, per farsi vedere. Una voce narrante fa da controcanto, ma è una voce sfasata, incomprensibile, e dice cose che, probabilmente, non ha nemmeno più senso ascoltare.
In questo spazio, però, nulla viene davvero comunicato, non c’è nulla da esibire. Ogni tentativo di «riempire» questo vuoto condurrebbe, potenzialmente, a un risultato commerciale. Ma non è questo il caso. Qui ci sono soltanto gli avatar, presi per quello che sono.
Sono gli avatar dell’inutile, del non monetizzabile. Di ciò che sta nell’ombra.
[1] A. Colamedici, M, Gancitano, La società dello spettacolo, p. 22, Edizioni Tlon, Roma 2022.